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Omelia del Giovedì Santo

13 Aprile 2017

Testo dell’omelia tenuta dal Vescovo, Antonio Suetta, durante la Messa Crismale nella cattedrale di Ventimiglia il 13 aprile 2017 alla presenza del presbiterio diocesano.

Eccellenze,
Carissimi Presbiteri e Diaconi,
Religiosi e Religiose,
Seminaristi,
carissimi Fedeli,

lo splendore di questa liturgia ci fa contemplare ancora una volta la bontà e la misericordia di Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre (Ap 1, 6).
Gli oli che verranno benedetti e consacrati durante questa celebrazione richiamano l’abbondanza e la gratuità del dono prezioso del Signore Gesù, sommo sacerdote, venuto a promulgare l’anno di grazia del Signore (Is 61, 3; Lc 4, 20).
In questo contesto di alleanza e di salvezza siamo chiamati a “ravvivare il dono di Dio che è in noi per l’imposizione delle mani” rinnovando la consapevolezza che “Dio non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza” (cfr. 2 Tim 1, 7-8).

Desidero soffermarmi con voi su una fondamentale dimensione del nostro sacerdozio che consiste nell’essere ministri della grazia di Dio e servitori dei nostri fratelli, secondo una formidabile definizione di San Paolo: “Noi non intendiamo fare da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2 Cor 1, 24).
Commento questa affermazione della Parola di Dio con un eloquente testo della Risoluzione della Sacra Congregazione del Concilio del 20 settembre 1879 (AAS 13 [1880], p. 299): “la Santa Madre Chiesa consideri che è il parroco dato al popolo e non il popolo al parroco”.

Dalla convinzione di quanto sia vero quanto appena riportato stimo opportuno ricordare a me stesso e a tutti voi di vigilare affinché mai nel nostro servizio pastorale cediamo alla tentazione del clericalismo, sempre in agguato talvolta come risultato di posizioni privilegiate e altre volte come reazione all’indifferenza o all’insuccesso.
Papa Francesco ha affermato che “Il clericalismo è una cosa molto brutta che c’è anche oggi e che allontana il popolo dalla Chiesa” (Omelia del 13.12.2016) e spesso vi possiamo cadere quando dimentichiamo che siamo servitori e non padroni del popolo santo di Dio e quando adattiamo il messaggio evangelico ai nostri gusti o vedute personali, di fatto tradendolo sia nella direzione della rigidità come nelle spinte aperturiste.

Praticamente rappresenta, a ben considerare, una vera e propria forma di idolatria: la parola di Dio ci parla sempre del dolore del Signore quando, nella sua relazione con l’uomo, si scontra con la durezza del suo cuore, la sclerocardìa. Dio mostra di soffrire un martirio d’amore quando l’uomo, chiamato per vocazione ad essere interlocutore privilegiato di Dio, arriva a scambiare “la sua gloria con la figura di un toro che mangia fieno” (cfr. Sal 105).

Quando sopraggiunge una qualche paura arriva puntuale la tentazione di fabbricarsi un idolo; e questo succede anche nell’attività pastorale del sacerdote.
Quando non riusciamo a scacciare le paure, quando non sappiamo decifrare e gestire situazioni di fatica, siamo portati a cercare la soluzione in qualcosa che ci assomiglia e in cui è facile identificarsi: si tratta in effetti di una specie di desiderio di supremazia.

Non è semplice avere a che fare con Dio o con il prossimo, e con il loro modo di relazionarsi.
Tendiamo ad ingigantire noi stessi fino nascondere la fisionomia dell’altro. E, così, invece di capire quale parola o compito siano preparati per noi quando facciamo esperienza della distanza di Dio o del fratello rispetto a noi, siamo portati a riempire quella distanza con qualcosa che ci rassicuri: un idolo appunto.
Forse noi siamo più raffinati del popolo d’Israele e non andiamo a cercare un banale vitello, ma altre realtà sono in agguato: il bisogno di riconoscimento, la volontà di comandare, oggi anche l’affanno di stare sempre connessi con i mezzi della comunicazione e la subdola dipendenza che ne consegue. L’esperienza del vuoto ci spiazza e così cerchiamo di riempirlo con qualcosa che possa rappresentare una soluzione o una via d’uscita. Conosciamo bene l’inconsistenza delle nostre strategie o efficientismi; eppure, pur consapevoli, ci accontentiamo del nostro mediocre cabotaggio anziché lasciarci spingere da Dio e dal vento dello Spirito in mare aperto, per gettare la rete sulla sua parola (cfr. Lc 5, 6) e nella consapevolezza che “egli ha un popolo numeroso nella nostra città” (At 18, 10).
Nella sinagoga di Nazareth Gesù ha insegnato a non concepire il rapporto con Dio in base ai nostri bisogni o alle paure: Dio è altro ed è oltre le nostre prospettive e limiti.
Dio ci parla sempre in modi diversi e non secondo le nostre aspettative. Egli ci riconduce allo straordinario progetto del Padre: “mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio,
a proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista;
a rimettere in libertà gli oppressi
e proclamare l’anno di grazia del Signore” (Lc 4, 18-20).

Se soffochiamo questo desiderio di Dio nulla è più eloquente; quando, invece, questo desiderio è condiviso, è vivo ed è sincero, tutto diventa epifania del Padre, anche la fragilità del Figlio, lo scandalo della sua debolezza e l’esperienza disastrosa della passione.
Siamo continuamente esposti alla tentazione di ridimensionare il Signore come ne avessimo il monopolio. A ben considerare il tradimento del vitello d’oro non significava per Israele il passaggio al culto di un altro dio: sarebbe stato impossibile! Piuttosto la tentazione più insidiosa per il popolo di Dio è stata quella di dare una forma umana al Dio vivente, pretendendo di modellarlo e di richiuderlo definitivamente nei nostri schemi. Dio ha voluto una forma umana, ma non quella pensata da noi: egli ha assunto la nostra condizione umana aprendola alla trasformante esperienza della vita divina. Ecco il sacerdozio ed ecco il significato dell’olio.

Sempre in agguato il pericolo di non riconoscere e, dunque, di non accogliere un Dio che si manifesta nella semplicità del volto umano o per mezzo di una parola sommessa e di uno stile povero. Sempre presente il rischio di non accettare un Dio senza prove evidenti e che chiede invece l’affidamento del cuore. Sentiamo fatica a vivere situazioni in cui Dio sembra assente.
È vero che spesso Dio sembra deluderci. Ci delude perché non approva ciò che ci si ostina a inseguire, manifestando tutta l’inconsistenza di quanto si è scelto e assunto come stile di vita. Non poche volte tale delusione ci porterebbe all’eliminazione di ciò o di chi ci è d’intralcio: e qui il clericalismo si palesa con grande evidenza. E poiché l’inganno rende ciechi, risulta difficile e soprattutto non scontato ammettere di aver intrapreso una strada senza sbocco.

È lo scandalo dei discepoli di allora come di noi oggi: a chi vorrebbe che Dio si manifestasse attraverso altri segni, la presenza viva dello Spirito mostra un’umanità semplice di uomini e donne che edificano la Chiesa non con il potere ma con l’umiltà.

Quanto abbiamo bisogno di imparare ancora lo stile di Dio per non rinchiuderci nelle nostre convinzioni e lasciarci sconvolgere da ciò che lo Spirito continua a mettere sul nostro cammino.
Rinnovando fra poco le promesse fatte nel giorno della nostra ordinazione sentiamoci ancora una volta pretesi dentro una relazione d’amore: “li chiamò perché stessero con lui” (Mc 3, 14); accettiamo che posi su di noi il suo sguardo per vedere cosa c’è davvero nel nostro cuore, e da quello sguardo, come Pietro la sera del tradimento (cfr. Lc 22, 61), riprendiamo coraggio e fiducia per dirgli ancora una volta: “Tu sai tutto, tu sai che ti amo” (Gv 21, 17).

+ Antonio Suetta

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