Diocesi Ventimiglia – Sanremo

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Vescovo

Omelia della Messa Crismale – 17 Aprile 2025

17 Aprile 2025

Cattedrale di Ventimiglia – 17 aprile 2025

Eccellenza Reverendissima, 

Confratelli Presbiteri e Diaconi, Religiosi, Seminaristi, Cresimandi e carissimi Fedeli,

la solenne liturgia odierna, nel prezioso contesto dell’anno giubilare, offre una splendida rappresentazione del mistero della Chiesa ormai nell’imminenza del Triduo pasquale, che, come un unico giorno liturgico, ci condurrà a celebrare i misteri più santi della redenzione.

La Messa crismale, con il segno dell’olio per i molteplici momenti della vita cristiana e la rinnovazione delle promesse sacerdotali, mostra come tutto il mistero della nuova esistenza in Cristo e della Chiesa, convergendo nell’Eucaristia, come loro pienezza, riconduca alla centralità del Signore Gesù, “testimone fedele” (Ap 1, 5) e unico Salvatore.

Ancora una volta i nostri “occhi sono fissi su di lui” (cfr. Lc 4, 20), pontefice della nuova alleanza, il cui sacerdozio è perpetuato nella Chiesa (cfr. prefazio).

Il prefazio di questa divina liturgia evidenzia sinteticamente lo stretto e imprescindibile legame tra il sacerdozio comune dei fedeli e il ministero sacro, che, affidato agli apostoli, è giunto fino a noi ed è tramandato a coloro che sono costituiti pastori: “Egli comunica il sacerdozio regale a tutto il popolo dei redenti, e con affetto di predilezione sceglie alcuni tra i fratelli che mediante l’imposizione delle mani fa partecipi del suo ministero di salvezza. Tu vuoi che nel suo nome rinnovino il sacrificio redentore, preparino ai tuoi figli la mensa pasquale, e, servi premurosi del tuo popolo, lo nutrano con la tua parola e lo santifichino con i sacramenti”.

La missione assegnata dalla misericordia del Padre a noi, pastori del popolo santo di Dio, esige una totale consacrazione a Gesù in ragione della conformazione a Lui, capo della Chiesa, e domanda una fedeltà a tutta prova da rinnovarsi, giorno dopo giorno, nella fiduciosa e gioiosa sequela di Lui.

Desidero sottolineare due punti particolari di tale fedeltà e raccomandarli ancora una volta al nostro costante impegno di servizio alla Chiesa.

In primo luogo, ricordando il 17° centenario del Concilio di Nicea e considerando che purtroppo l’errore dell’eresia ariana torna ad imperversare, desidero ribadire l’unicità di Gesù Cristo come Redentore dell’umanità e che Egli e la Chiesa, da lui fondata, sono l’unica via per la salvezza voluta da Dio.

Sono molteplici i punti decisivi della vita di fede sbiaditi e corrotti dalla pervasiva secolarizzazione e da errori dottrinali; oggi abbondano le questioni di confusione e di errore nei campi  della vita e della sessualità umana, del matrimonio, del primato della fede cattolica, dei sacramenti e della necessità di credere in Dio per la salvezza.

La lettera agli Ebrei, focalizzando l’attenzione sull’opera salvifica di Cristo, esprime con luminosa efficacia un’antica situazione di smarrimento anche oggi presente e mostra come il mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio partecipi all’uomo una nuova condizione di vita redenta: “Poiché dunque i figli hanno in comune sangue e carne, egli pure vi ha similmente partecipato, per distruggere, con la sua morte, colui che aveva il potere sulla morte, cioè il diavolo, e liberare tutti quelli che dal timore della morte erano tenuti schiavi per tutta la loro vita” (Eb 2, 14-15).

Una tale consapevolezza di fede deve animare sempre la nostra predicazione, le catechesi e ogni attività pastorale affinché il nostro popolo sia sempre condotto a buoni pascoli. Con le parole di Gesù a Paolo esorto tutti voi, confratelli carissimi, a curare con puntuale e attenta fedeltà alla dottrina cattolica tutti gli aspetti dell’azione pastorale, anche i più spiccioli, e specialmente quelli esposti alle negative influenze delle mode ricorrenti: “Ti sono apparso per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai visto e di quelle per cui ti apparirò ancora. Per questo ti libererò dal popolo e dai pagani, ai quali ti mando ad aprir loro gli occhi, perché passino dalle tenebre alla luce e dal potere di satana a Dio e ottengano la remissione dei peccati e l’eredità in mezzo a coloro che sono stati santificati per la fede in me” (At 26, 16b-18).

L’annuncio del Regno di Dio comporta, come specifica sensibilità pastorale, la lotta contro lo spirito del male, come ben indicato da Marco nel racconto della chiamata dei dodici: “Ne costituì dodici per tenerli con sé e per mandarli a predicare con il potere di scacciare i demòni” (Mc 3, 14-15).

In secondo luogo colgo sempre dalla citata lettera agli Ebrei uno spunto per raccomandare, come scritto a tutti voi, confratelli carissimi, all’inizio della Quaresima, la custodia e l’incremento della grazia della fraternità presbiterale: “Sia colui che santifica sia quelli che sono santificati provengono tutti da uno; per questo egli non si vergogna di chiamarli fratelli, dicendo: «Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli; in mezzo all’assemblea canterò la tua lode».E di nuovo: «Io metterò la mia fiducia in lui». E inoltre: «Ecco me e i figli che Dio mi ha dati» (Eb 2, 11-13).

Ringrazio tutti coloro che hanno espressamente risposto al mio invito sia con colloqui che con lettere, una delle quali, molto bella, purtroppo anonima: vorrei conoscerne l’autore per ringraziarlo della correzione fraterna e approfondire qualche tematica.

Come ho detto, e lo ribadisco, la fraternità è una grazia, non un fardello o un fastidio; è un dono che il Signore ci fa per sostenere insieme i pesi della vita e del ministero, per condividere il suo cuore di padre e per dare testimonianza del suo regno.

Nel terzo capitolo de I Promessi Sposi c’è una scenetta simpatica: Renzo, andato a monte il matrimonio, si reca dall’avvocato Azzeccagarbugli e porta in dono quattro capponi. Scrive il Manzoni con la sua consueta ironia:“Lascio poi pensare al lettore, come dovessero stare in viaggio quelle povere bestie, così legate e tenute per le zampe, a capo all’in giù, nella mano d’un uomo il quale, agitato da tante passioni, accompagnava col gesto i pensieri che gli passavan a tumulto per la mente. Ora stendeva il braccio per collera, ora l’alzava per disperazione, ora lo dibatteva in aria, come per minaccia, e, in tutti i modi, dava loro di fiere scosse, e faceva balzare quelle quattro teste spenzolate; le quali intanto s’ingegnavano a beccarsi l’una con l’altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura.”

Quella dei capponi di Renzo è una chiara metafora, che lascio a noi, fratelli in questo presbiterio: spesso quando ci troviamo in difficoltà invece di essere solidali e di fare fronte comune con coloro che si trovano nella nostra stessa situazione, tendiamo a “beccarci” tra di noi, accusandoci a vicenda degli insuccessi, cercando di sfuggire alle nostre responsabilità, cercando di mettere in evidenza i nostri pregi in contrapposizione con i difetti altrui, cercando di “chiamarci fuori” anche se, come succede ai capponi, siamo “dentro” in pieno. Dovremmo comprendere che fare come i capponi di Renzo non è solo dannoso, è decisamente stupido.

È bello lasciar risuonare tra noi, oggi, le parole scritte da San Gregorio Nazianzeno di San Basilio:“… quasi lui solo, fra tutti coloro che per studio arrivavano ad Atene, eraconsiderato fuori dell’ordine comune, avendo raggiunto una stima che lo metteva ben al di sopra dei semplici discepoli. Questo l’inizio della nostra amicizia; di qui l’incentivo al nostro stretto rapporto; così ci sentimmo presi da mutuo affetto.

Quando, con il passare del tempo, ci manifestammo vicendevolmente le nostre intenzioni e capimmo che l’amore della sapienza era ciò che ambedue cercavamo, allora diventammo tutti e due l’uno per l’altro: compagni, commensali, fratelli. Aspiravamo a un medesimo bene e coltivavamo ogni giorno più fervidamente e intimamente il nostro comune ideale. Ci guidava la stessa ansia di sapere, cosa fra tutte eccitatrice d’invidia; eppure fra noi nessuna invidia, si apprezzava invece l’emulazione. Questa era la nostra gara: non chi fosse il primo, ma chi permettesse all’altro di esserlo.” (Disc. 43).

Auguro a ciascuno di noi di essere coraggiosamente il «vir desideriorum» del libro del profeta Daniele, l’«uomo dei desideri», che «non si accontenta della realtà esistente e non soffoca l’inquietudine del cuore, quell’inquietudine che rimanda l’uomo a qualcosa di più grande» (J. Ratzinger). E lo sappiamo in fondo, che tanti attacchi affondano radici in qualcosa che va oltre accuse e scuse espresse. È la radicale opposizione del credente alla mentalità del “mondo”, ciò che alimenta una ostilità che cova e lievita, e a tratti sbuca in  superficie. È la pretesa cristiana di insegnare ai figli un altro senso, e tutta un’altra logica, da quella che ci vorrebbe docilmente allineare. È la fedeltà al «non conformatevi» di Paolo, il duro antico nodo dello scontro.

A Maria, madre della Chiesa e del nostro sacerdozio, ci affidiamo con filiale confidenza. Ella, come la Chiesa, è vergine e non sterile, come antiche donne della storia sacra: in lei il frutto del grembo, dono di Dio, supera non un limite della natura malata, ma una scelta di vita, che si abbandona, come vogliamo fare anche noi, alle mani di Dio.

Con le parole di Papa Francesco, che oggi insieme portiamo nella preghiera, concludo: “Prego il Signore Gesù che dal suo Cuore santo scorrano per tutti noi fiumi di acqua viva per guarire le ferite che ci infliggiamo, per rafforzare la nostra capacità di amare e servire, per spingerci a imparare a camminare insieme verso un mondo giusto, solidale e fraterno. Questo fino a quando celebreremo felicemente uniti il banchetto del Regno celeste. Lì ci sarà Cristo risorto, che armonizzerà tutte le nostre differenze con la luce che sgorga incessantemente dal suo Cuore aperto. Che sia sempre benedetto!” (Dilexit nos, 220).

+ Antonio Suetta, Vescovo di Ventimiglia – San Remo

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